SUPERCAZZOLE N° 12

Autore del post: Renato (per conoscermi meglio, clicca qui).

Eccoci alla fine.

Con questo post termino questa mia iniziativa (forse un po’ troppo “ardita”) con la quale ho voluto dare alcune informazioni sulle cure palliative.

Nel blog “QUASIZEN”, dopo questo post, continuerò a dedicarmi solo ad altri argomenti.

In questo blog potrai trovare altri articoli, pubblicati in precedenza, intitolati con il termine “SUPERCAZZOLE” che (nel caso tu non lo sappia) si occupano di tale argomento strettamente legato alla mia (attuale) professione.

Potrai rintracciare i precedenti post della stessa serie cliccando sui seguenti numeri: 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10 – 11 (in particolare ti invito a considerare le iniziali premesse che ho espresso nell’articolo n° 1, oltre alla scheda informativa sintetica sulle stesse cure palliative che potrai scaricare dall’articolo n° 9). Anche se con un titolo diverso, ho anche affrontato lo stesso tema delle cure palliative in un altro articolo al quale tengo tanto, intitolato con il termine “MARZIANO”, che potrai rileggere cliccando qui.

Ho cercato di affrontare questo tema in modo abbastanza schietto e sincero, senza “addolcire” troppo una pietanza che, di solito, risulta piuttosto indigesta per la maggior parte delle persone.

Tra queste persone ci sono anch’io, lo ammetto. Parlare di cure palliative significa pensare a cosa sta andando incontro una persona che abbia bisogno di queste stesse cure.

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Come sempre, ti suggerisco di accompagnare la lettura di questo stesso post con un sottofondo musicale. Ti propongo di ascoltare una cover di un famosissimo brano di Whitney Houston (per qualche informazione su questa artista, clicca qui), intitolato “I Will Always Love You”, interpretato da Vanny Vabiola, giovane cantante indonesiana nota per le sue canzoni “Ada Rindu Untukmu” e “jangan Kau Datang Lagi”. 

Questa giovane interprete, nel suo canale YouTube, ha ottenuto un seguito di oltre 2,12 milioni di iscritti. 

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Parlare di cure palliative significa pensare alla morte. È inutile negarlo, non raccontiamoci le solite “supercazzole”.

Ed in modo assolutamente schietto e sincero ti confesso che, per me, la morte è proprio una grandissima porcheria, ne ho una paura matta e spero che arrivi il più tardi possibile per me e per tutte le persone alle quali voglio bene.

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Tanti mi hanno chiesto come io possa occuparmi di questa roba per lavoro.

Ci sono tanti motivi per farlo e, forse, non basterebbe una vita a scrivere in un blog per elencarli tutti.

Qui voglio dirtene solo alcuni.

Il primo è che riesco a fare questo lavoro solo perché cerco di “neutralizzare” l’idea della morte, pensando che tutto quello che c’è prima È VITA!

Certe volte (rischiando anche di essere frainteso) dico agli stessi parenti (se mi sembrano in grado di capirmi) di alcuni pazienti che “a me non importa che una persona stia per morire”.

Io faccio il medico (tra l’altro non sono né un medico legale, né un anatomopatologo) e, quindi, mi occupo di persone VIVE.

Alla persona morta ci penseranno quelli delle onoranze funebri (lo so, può sembrare un po’ cinico dirlo, ma come sai non mi piacciono le “supercazzole”).

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Per come intendo il mio attuale lavoro, che una persona campi 60 anni, 6 anni, 6 mesi, 6 settimane o soli 6 giorni, la mia “intenzione” di cura non cambia.

Per la professione che svolgo adesso, l’intenzione di cura non può essere la guarigione ma fare del mio meglio affinché una persona che sta andando incontro alla morte, abbia la…

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libertà di attribuire un significato al tempo che gli resta da vivere.

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Tuttavia, ammesso che ci si riesca ed ammesso che tale condizione di libertà dal dolore duri abbastanza, anche riuscendo ad annullare ogni forma di sofferenza fisica ad un malato terminale, non credo che sia facile, per quella stessa persona, attribuire significato alla propria vita, sapendo che questa sta per concludersi.

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Ma possiamo essere sicuri che sia impossibile?

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Che l’imminenza della morte possa farci perdere la capacità di attribuire significato alla vita che resta, non potrebbe essere un “problema” che riguarda tutti gli altri, tranne che quella stessa persona che è prossima alla propria morte?

Essere tristi, essere addolorati, essere impauriti, essere disperati, basta affinché si smetta di dare significato alla propria vita?

Non potrebbe essere, invece, quel significato che attribuiamo alla stessa vita che ci fa odiare così tanto la nostra morte?

In fin dei conti, non si può anche aver diritto di essere angosciati dal dover morire, pur di sentirsi vivi?

Che diritto abbiamo di togliere la speranza di vivere (anche solo per un altro giorno) ad una persona?

Sinceramente, nutro una enorme diffidenza nei confronti di coloro i quali hanno delle risposte “certe” per tali domande.

Io, sicuramente, non ho risposte “certe”, meno che mai valide per tutti.

Mi è anche capitato di parlarne con qualche paziente in fase avanzata di malattia, il quale mi chiedeva “che senso ha vivere così?” ed io non ho saputo dire altro che “questa è una risposta che puoi darti solo tu”.

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A quel punto (forse sarà stata una mia suggestione) quella persona assumeva un atteggiamento di chi capisce che non è ancora arrivato il momento di “arrendersi”.

Perché, poi, ammettere la morte dovrebbe necessariamente e sempre significare di rinunciare a voler vivere?

Io ho avuto l’empatica impressione (ma ripeto, non posso averne certezza) che quella persona, almeno per un istante, ha capito di poter dare un significato alla propria vita anche se, forse, non riusciva a sapere come (io, sicuramente, non lo sapevo).

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Tante volte ho detto a mia figlia che “non m’importa cosa faccia, non mi importa come lo faccia, quel che conta veramente è che lei senta il perché lo fa”.

Il sentire il “perché” non è necessariamente un contenuto di pensiero, di idee, di progetti, di obiettivi. Almeno non lo è per tutti.

Gli esseri umani (forse non tutti) possono sentire un “perché” pur senza possedere un “cosa” ed un “come”.

Ciò ha a che fare con i VALORI e di cosa intendo per valori ne ho già parlato in un altro articolo (clicca qui, se vuoi ritrovarlo).

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Io credo nella centralità dei valori nella vita e se ciò contasse qualcosa anche solo per pochi (ma, non credo che siano così pochi), vale la pena occuparmi di loro.

Penso che queste persone possono aver bisogno di un aiuto che sento di poter offrire.

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Altri potranno anche aver bisogno di qualcosa di diverso, avranno solo bisogno di spegnere rapidamente la propria legittima angoscia per la morte, per così dire “senza tante balle” (potrebbe capitare anche a me di trovarmi in quella condizione), ed anche per loro è doveroso offrire un aiuto, anche perché potrebbe essere più “facile” riuscirci (forse). Basterà solo qualche farmaco appropriato per farli dormire un po’ ed il gioco è fatto.

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In ogni caso, nelle cure palliative il sonno farmacoindotto (la sedazione) pur essendo necessaria praticamente in tutti i casi (anche solo nelle ultime ore), non è lo scopo, non è il “perché” che io attribuisco alle stesse cure palliative.

Per me, non basta che una cosa sia necessaria per essere importante.

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La sedazione è solo uno degli strumenti, dal mio punto di vista il meno importante, sebbene spesso estremamente necessario (ma pur sempre l’ultimo e sempre attentamente ponderato).

Che una persona possa essere privata della propria coscienza ritengo che non sia un diritto bensì, al massimo, una tragica necessità (figuriamoci quale possa essere la mia opinione riguardo il privarsi – con il suicidio oppure con l’eutanasia – della vita che abbiamo ricevuto, sostanzialmente, in “prestito”, per come ho già detto in un precedente post che potrai ritrovare, cliccando qui).

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Secondo me, nelle cure palliative, nella loro più completa declinazione che si correla alla corrispondente definizione inglese di “palliative care” (e di questo concetto ho già parlato in un precedente articolo che potrai ritrovare cliccando qui), sono molto più importanti altre cose che, tuttavia, non è sempre così semplice attuare (soprattutto se è assente una necessaria sensibilità di chi decide quali risorse attribuire alle diverse attività).

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Una fiala di morfina per togliere il dolore potrà essere sicuramente necessaria affinché una OSS possa imboccare un paziente che non riesce più a mangiare da solo. Ma per quel paziente mangiare sarà la cosa veramente più importante, perché è quello che gli ricorda di essere ancora vivo. Lo potrà fare grazie al fatto che la morfina gli ha tolto il dolore che gli impediva anche di mangiare, ma ciò che da senso alla sua vita, forse, è solo quel boccone che può ancora gustare e la morfina è stata “solo” necessaria.

Per quel paziente è sicuramente necessario non sentire dolore, ma può essere molto più importante bere ancora un caffè, può essere più importante radersi la barba o farsi fare una bella piega ai capelli.

Per quella persona potrebbe essere più importante poter dire a qualcuno quanto ha paura della morte, può essere più importante poterlo fare con qualcuno che magari non sia sua moglie o suo figlio che, egli stesso, vuole proteggere da quel dolore. Per quella persona potrebbe essere importante poter dire certe cose ad un infermiere, ad un medico che non si limitino solo a chiedere se ha male o nausea.

Mi é capitato più di una volta che un paziente si lamentasse del fatto che tutti, entrando nella sua camera, facevano sempre le stesse domande: “come sta?”, “ha male?”, “ha la nausea?”.

Per quei pazienti, può essere più importante trascorrere del tempo con un musicoterapeuta che sappia proporre la musica come mezzo validissimo per esprimere le proprie emozioni.

Può essere concretamente più importante poter parlare con uno psicologo, per condividere il proprio dialogo interiore, per svilupparlo, per compiere il proprio processo psicologico verso ciò a cui sta andando incontro.

C’è poi chi sente il bisogno di compiere un altro processo che va anche oltre la propria individualità, un processo indirizzato verso una dimensione transpersonale, una dimensione spirituale (non necessariamente “religiosa”). Nella nostra odierna società ci si illude troppo spesso di poter dimenticare questa dimensione esistenziale, ma il fenomeno ENORME che è la morte, spesso, riesce a svelarci tutta la criticità di tale “dimenticanza”. A quel punto ti puoi ritrovare a formulare un tuo dialogo con qualcosa che va oltre ogni realtà contingente della vita.

Un paziente in fase avanzata di malattia, avrà sicuramente bisogno di non vomitare per realizzare quel dialogo, ma la cosa veramente importante sarà poter sentire la vicinanza di qualcuno che riconosca e condivida con lui quello stesso dialogo con l’Assoluto.

Ecco perché credo che gli operatori spirituali siano, tra le varie figure “professionali”, forse la più importante nelle cure palliative che, probabilmente, dovrebbero essere costantemente presenti, anche e soprattutto come figure laiche, anche del tutto slegate da specifiche confessioni religiose (pur senza proibire lo svolgimento di tale compito anche ad operatori “religiosi” che si potrebbero rivolgere a chiunque ne faccia richiesta, nell’equo spazio riconosciuto ad ogni diversa confessione).

Anche la rete sociale è ciò che da valore alla vita, ecco perché chi possa favorire la massima espressione della stessa rete, diventa assolutamente importante. In questo risiede la grande importanza dell’operato degli assistenti sociali.

Anche l’intervento di fisioterapisti e di terapisti occupazionali risulta essere tra le cose di maggiore importanza per il paziente, talvolta anche più di qualsiasi altra cosa. Potersi muovere (anche con aiuto), poter “fare” qualcosa, è ciò che più di tanto altro può far attribuire senso alla vita.

Rendere possibile l’espressione di una lucida speranza di vita, camminando anche con un aiuto o dipingendo un quadro, scrivendo un diario, accarezzando anche un gatto è ciò che di veramente importante ci può essere nelle cure palliative.

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Ovviamente, in questo contesto complessivo, espresso bene dal termine inglese “care”, ci devono essere anche medici ed infermieri, persone che svolgono una funzione sicuramente necessaria, ma non per questo più importante di altre. La cura intesa come semplice somministrazione di farmaci è solo uno strumento (di parziale valore) per consentire tante altre cose ben più importanti.

Ecco perché se avessi voluto fare solo il medico avrei continuato a fare il neurologo. Ecco perché il personale infermieristico nelle cure palliative non si limita a pensare solo a somministrare farmaci.

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A questo proposito voglio sottolineare la mia ferma convinzione che ogni opzione terapeutica che non sia solo farmacologica possa rivestire un ruolo importantissimo nell’ambito delle cure palliative, soprattutto se questo può evitare o, ridurre, il peso di tutta una serie di effetti collaterali che sono, innegabilmente, correlati all’impiego dei farmaci necessari in questi casi.

Ad esempio, sarei ben contento di poter ridurre il dolore o la nausea ad un paziente, ritardando il più possibile la sua sedazione grazie ad un trattamento complementare come può essere l’agopuntura.

Lo ammetto, mi piacerebbe tanto imparare questa tecnica terapeutica, ma purtroppo tutto ha un costo e ci vorrebbe chi ha la necessaria lungimiranza di pagarmi un corso di formazione. Io non sono un lavoratore autonomo ed ho già investito tutto quello che ho potuto in passato, per la mia professione. Ma se qualcuno volesse darmi la possibilità di imparare una tecnica come l’agopuntura, sono sicuro che questo potrebbe essere un’ulteriore validissima risorsa per l’attività che svolgo nelle stesse cure palliative.

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Io faccio il medico e rivendico, anche con ORGOGLIO, il valore della mia professione (che, a dir il vero, non sento che sia stata così tanto rispettata dalle autorità italiane negli ultimi decenni). Rivendico la necessità di fornire adeguate risorse all’attività svolta da medici ed infermieri della Sanità PUBBLICA (unica vera garanzia di universalità della cura), ma ciò non mi impedisce di sottolineare l’importanza (anche maggiore) di ogni altra attività svolta (e che dovrebbe essere implementata) con modalità anche diverse dal semplice intervento “tecnico” con il quale si tende a definire qualsiasi cura.

Ciò dovrebbe valere in qualsiasi ambito sanitario, ma ancor di più nelle cure palliative.

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Sono fermamente convinto che non ci si debba distrarre, offrendo il fianco ad una visione eccessivamente “farmaco-centrica” delle stesse cure palliative, arrendendosi ad una tendenza di arida “medicalizzazione” della morte (parallela ad un’altra sconsiderata tendenza di medicalizzazione della vita che è uno dei motivi per il quale ho vissuto la mia “crisi” identitaria di medico che, tuttavia, ho saputo risolvere con la mia scelta di occuparmi delle stesse cure palliative).

Limitarsi a medicalizzare la morte potrebbe anche essere una ingenua formula per esprimere una “pietà” nei confronti di chi si trova in condizioni di estrema sofferenza, ma temo che possa anche offrire il fianco all’idea di una eutanasia edulcorata che è una concezione del tutto opposta alla vera natura delle cure palliative (almeno per come le intendo io).

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Limitarsi a medicalizzare la morte rischia di diventare uno strumento per accontentarsi di esorcizzarla, di volerla “ghettizzare” in strutture di degenza intesi come semplici “dormitori” dei moribondi. Si rischierebbe di illuderci che bastino dei “parcheggi” di ciò che ripugniamo e che la nostra società non sa o non vuole gestire diversamente (ecco perché ho anche sottolineato il valore delle cure palliative DOMICILIARI, in un altro articolo che puoi ritrovare cliccando qui).

Non c’è NESSUNA equipe di cure palliative, non c’è NESSUN hospice d’Italia che vuole questo e tutti NOI operatori di questo settore cerchiamo di dimostrarlo, ogni giorno, col nostro operato.

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Prima di concludere, ti suggerisco di ascoltare la voce originale di Whitney Houston che interpreta la stessa bellissima canzone che hai ascoltato prima come cover.

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Termino questo post, ricordandoti che tutte le cose che hai appena letto sono per lo più delle mie idee o, comunque, basate anche su preferenze, esperienze ed intuizioni personali.

Ti invito, quindi, a considerare sempre che tutto ciò che si legge in questo blog non rappresenta, in alcun modo, alcuna Verità valida per tutti (per come ho già spiegato in un altro articolo che potrai rileggere, cliccando qui).

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Se tu volessi contattarmi lo potrai fare scrivendo a quasizen.mail@gmail.com

Accetterò ogni commento, giudizio o suggerimento (e, se non riesci proprio ad evitarlo, anche qualche insulto). Potresti anche inviare ogni tua riflessione che vorresti pubblicare su “QUASIZEN” (potrai chiedermi di farlo).

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Ciao, alla prossima (non so quando).

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