Articolo di Renato Di Gesù (per informazioni sull’autore, clicca qui).
Nel caso che tu sia una delle 2-3 persone che leggono ancora gli articoli di QUASIZEN, non posso che ringraziarti per la tua (benevola) attenzione e spero di non deluderti con quello che leggerai oggi.
Prima di introdurre il tema di questo articolo, ti invito subito (come di consueto in questo blog) ad ascoltare un po’ di musica come sottofondo, durante la lettura.
Oggi (per fare contenti anche i ragazzi della generazione di mia figlia) ti propongo un brano dei Måneskin (se sei un “matusa” come me e vuoi qualche informazione su questo gruppo musicale, clicca qui).
Il brano che ascolterai s’intitola “Fear for Nobody”.
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Ascoltando i Måneskin, penso che riuscirai a “sopportare” meglio questo 5° articolo dedicato alle cure palliative.
Dai, non fare come Oronzo Canà (Lino Banfi) nel film “l’allenatore nel pallone” (se vuoi conoscere qualcosa in più su questo stesso film, clicca qui). Non fare certi gestacci “scaramantici”.
Se ti do qualche informazione sulle Cure Palliative, non è detto che tu debba averci a che fare, direttamente.
In ogni caso, potresti leggere certe cose anche solo per semplice “curiosità”.
Non voglio commuoverti con tristi racconti di quel che accade a chi vive i suoi ultimi giorni con crudeli malattie. Non mi interessa suscitare le “lacrimucce” che vanno tanto di moda in certe trasmissioni televisive. Non mi interessa impietosire nessuno con le solite “supercazzole” che si sentono in giro sulle stesse cure palliative.
Le persone che soffrono non hanno alcun bisogno di certi “pietismi”. Non starò a raccontarti cosa provano quelle stesse persone. Le loro storie meritano solo rispetto e, spesso, anche riservatezza e silenzio.
Spero solo di riuscire ad accompagnarti lungo un cammino di consapevolezza, nel quale proverò a condividere con te alcune riflessioni che, secondo me, devono rappresentare le necessarie premesse di ogni richiesta e di ogni offerta di cure palliative.
Faccio questo anche perché temo che queste stesse premesse, talvolta, rischiano di non essere ben chiare neppure a chi governa, gestisce od opera nella sanità, prima ancora di non esserlo nella rimanente popolazione.
Come ho già scritto in un precedente articolo (clicca qui per rileggerlo), non ho alcuna presunzione di possedere la Verità e, pertanto, cercherò solo di suscitare autonome riflessioni che possano anche correggere le mie stesse affermazioni.
Nei precedenti quattro articoli (che puoi rileggere cliccando sui seguenti numeri: 1 – 2 – 3 – 4) ti ho già presentato alcune riflessioni:
Nel primo articolo, ad esempio, ho cercato di spiegare come parlare di cure palliative serva anche per capire cosa si può e deve intendere per qualsiasi altra cura.
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Nel secondo articolo, tra le varie cose, ho sottolineato come non abbia senso nascondersi dietro un “alibi” di non voler “ferire” la sensibilità altrui (presumendo che questa sia troppo “delicata”), in quanto questo non farebbe altro che rinforzare certi “tabù” o “ipocrisie” riguardanti le stesse cure palliative.
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Il terzo articolo contiene due fra i più importanti principi in cui credo e che ho voluto condividere con te:
– la morte NON è una malattia
– le cure palliative sono dedicate a PERSONE ANCORA VIVE.
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Nel quarto articolo ho spiegato perché ho intitolato questa serie di articoli dedicati alle cure palliative con il termine “SUPERCAZZOLE”.
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Nell’articolo di oggi, per prima cosa, ti propongo di gustarti una memorabile scena tratta da un film di Benigni: “La Vita è Bella”
Quel film è stato un grande capolavoro, fra i più belli che io abbia mai visto. Tra tutte le sue stupende scene ce n’è una assolutamente sublime.
È quella nella quale il personaggio interpretato dallo stesso Benigni, per proteggere il suo piccolo figlio dall’angoscia di scoprire di essere reclusi in un lager nazista, gli fa credere che un militare dello stesso lager voglia spiegare le regole di un gioco che si dovrebbe svolgere in quel posto.
Per questo motivo, Benigni si offre come “traduttore” dello stesso militare che parla in tedesco e che ha, in realtà, intenzione di spiegare ai prigionieri le regole che si devono rispettare nello stesso lager.
Se hai già finito di ascoltare i Måneskin, adesso puoi goderti la magnifica scena del film “La Vita è Bella” (buona visione).
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Adesso per continuare a leggere (senza annoiarti troppo) questo articolo ti suggerisco di ascoltare un altro brano dei Måneskin, intitolato “La Fine”.
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Forse, ti stai chiedendo cosa c’entrava la precedente scena del film di Benigni con il tema delle cure palliative (hai ragione, faccio dei ragionamenti un tantino “contorti”).
Ti prego di aver pazienza, continuando a leggere questo articolo. Ho fatto riferimento a quella scena perché, in un certo senso, penso che quella stessa scena si possa mettere in relazione col fatto (assolutamente normale) che quasi tutti non abbiano alcuna voglia di pensare ad argomenti tristi come la morte e le cure palliative.
Lo so bene, anche tu sei ottimista e non vuoi proprio pensare a certe cose.
Ed io ammiro (ed invidio) tantissimo gli ottimisti. Ad esempio è utilissimo che sia proprio un ingegnere ottimista a progettare il motore di un jet militare. Ma, ad essere sinceri, non credo che nessun pilota avrebbe voglia di volare con quel jet, se non ci fosse stato anche un altro ingegnere “pessimista” che avesse progettato il seggiolino eiettabile degli stessi aerei militari (clicca qui per maggiori informazioni).
Lo so bene, gli ottimisti pensano che tutto andrà sempre bene, che vivranno minimo 100 anni (anch’io punto a campare almeno altri 50 anni, dato che ora che scrivo ne ho 56).
Lo so bene, nessuno ha voglia di sentire brutte storie. Tutti preferiamo le belle “storielle”.
Ecco perché ti ho proposto quella scena del film “La Vita è Bella”.
Infatti, in quella scena, cosa fa Benigni per amore per il suo piccolo figliolo?
Gli racconta una storiella, lo prende letteralmente per il culo. E lo fa per amore.
Non mi sento di condannare quel gesto, forse lo avrei fatto anch’io, lo potrebbe fare qualsiasi padre sano di mente. Tanti lo farebbero per amore, solo per amore.
Ma questo accade solo con i bambini piccoli?
No, in alcuni casi raccontiamo le “storielle” anche agli adulti e, tante volte, le “storielle” ce le raccontiamo noi stessi.
Lo possiamo fare anche per amore, solo per amore, ma talvolta trattiamo una persona o anche noi stessi come un bambino di 4 anni.
Raccontiamo le “storielle” solo perché non sopportiamo la realtà.
Raccontiamo una “storiella” per nascondere (o nasconderci) il dolore, la disperazione, per nascondere un fallimento o una sconfitta. Per nascondere la paura di morire.
Lo facciamo come se avessimo a che fare con un bambino di 4 anni (e talvolta siamo anche più immaturi di un bambino di 4 anni, ammettiamolo!).
Lo facciamo, forse, anche perché ci vergogniamo delle nostre emozioni.
Sia ben inteso, non mi permetto di giudicare nessuno. Ho descritto situazioni ed atteggiamenti che possono interessare chiunque, me per primo. Posso essere il primo a raccontare (o raccontarmi) “storielle”. Oltretutto, non posso negare la tragicità di certe vicende per le quali ognuno può reagire anche con stati d’animo e comportamenti del tutto diversi da quelli che ho descritto prima. La mia “analisi” corrisponde solo ad una delle tante modalità con le quali si possono affrontare le stesse tragiche situazioni. Ed, in ogni caso, anche la scelta di raccontare certe “storielle” va considerata nel reale contesto umano e situazionale di ogni singolo caso e di ogni singolo momento.
Tuttavia, tornando a quanto detto prima, non escludo che, almeno in alcuni casi, il “problema” potrebbe anche non essere il fallimento, la sconfitta o la paura?
In alcuni casi, il “problema” potrebbe essere il vergognarsi del proprio fallimento, vergognarsi della propria paura?
Forse il vero problema potrebbe essere che per lottare, per impegnarsi, per fare del proprio meglio, in qualsiasi cosa, si vorrebbe essere sicuri della “vittoria” e facciamo diventare quel che desideriamo (e possiamo, anche, avere tutto il diritto di desiderarlo) una pretesa.
Per questa ragione, come dei bambini “capricciosi”, generalmente non siamo disposti ad ammettere che il nostro massimo impegno può anche concludersi con un clamoroso fallimento del quale, pertanto, ci vergogniamo.
Anche la sacrosanta lotta contro una malattia può concludersi, purtroppo, con la morte.
Ma noi (per nostra normalissima natura) non siamo disposti ad ammettere questa sconfitta. La rifiutiamo. Non vogliamo vivere quell’esperienza (e chi vorrebbe?).
Ma negare certe verità rischia di essere un po’ come se decidessimo di non vivere di giorno perché poi, tanto, arriva la notte.
È un po’ come se decidessimo di sparare in fronte ad un neonato perché poi, tanto tra 90-100 anni al massimo è “probabile” (direi, anzi, sicuro) che, comunque, morirà.
Forse bisognerebbe essere un po’ “folli” per vedere le cose in modo diverso, per accorgersi che il fallimento, la sconfitta, la morte sono l’altra faccia della stessa medaglia, opposte al successo, alla vittoria ed alla vita. Ma la medaglia è sempre solo una ed il suo valore sta sempre e solo nella volontà di lottare, di impegnarsi anche a costo di perdere. Forse la vita può essere vissuta pienamente anche se si è sicuri della propria morte (anche se, malauguratamente, imminente).
Forse le cure palliative possono consentire tutto ciò. Io ne sono convinto e per questo credo nel lavoro che svolgo, occupandomi dei pazienti che curo. Nelle cure palliative sono riuscito a trovare la realizzazione dei miei valori (per sapere cosa intendo per valori, clicca qui), anche in misura maggiore di quanto non ci riuscissi facendo il neurologo (per quanto la neurologia resti sempre, per me, una disciplina medico-scientifica tra le più interessanti e nobili).
Può valere la pena continuare ad amare la vita solo se si ha la fortuna di accorgersi che la voglia di vivere, pienamente e consapevolmente, tutte le proprie esperienze (anche quelle dolorose) esiste in sé, senza alcuna reale dipendenza con i risultati che otteniamo per ogni nostra azione, per ogni nostra decisione.
Forse anche vivendo delle brutte esperienze ci possiamo rendere conto del valore della nostra vita. Forse.
Io mi ritengo fortunato e sono grato, prima di tutto perché, ancora, non ho avuto la sorte di confrontarmi con la morte di miei familiari più prossimi e poi anche perché la mia salute mi consente di sperare di poter vivere ancora abbastanza. Ma mi sento ragionevolmente grato anche per certi momenti molto difficili che ho vissuto per colpa di persone estremamente malvagie.
In particolare una persona è risultata TOSSICA per la mia vita e non solo per la mia. Ma, alla fine, potrei quasi perdonarla (anche se non dimenticherò mai il male che mi ha fatto), potrei anche esserle grato per come mi ha facilitato nel far evolvere positivamente la professione che svolgo e la mia vita.
Lei, invece, è solo una povera FALLITA, è solo una miserabile persona che ha fallito in tutto ciò che di più importante aveva puntato nella sua vita.
Ha costruito la sua misera esistenza come quella di un tiranno ed anche se tutti i tiranni non sono mai sconfitti dai popoli, alla fine finiscono sempre per essere sconfitti da sé stessi.
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Chissà, forse questo fallimento potrà essere l’altra faccia di un’esperienza migliore anche per quella persona. Se il padreterno sarà disposto a darle l’aiuto che nessun altro le potrà (e le vorrà) dare.
Io, ringraziando il cielo, per questa volta ho avuto già la mia “piccola” vittoria.
Ogni tanto, una coppa o una medaglia possono anche far piacere, mica si devono rifiutare. Non ha senso andare a cercare i fallimenti. Mica ha senso non voler evitare la sofferenza che ci impedirebbe di sorridere a chi ci vuol bene. Mica ha senso rinunciare a delle cure (anche palliative per reali malattie inguaribili) che possono dare pieno sollievo a tanta sofferenza.
Figuriamoci se può aver senso aver fretta di morire.
Mica siamo fessi! Voliamo in aereo sempre sperando che il motore funzionerà benissimo. Viviamo sempre sperando di non aver mai bisogno di un paracadute (così come non vorremmo mai aver bisogno di cure palliative). È assolutamente normale volerci credere.
Ciò non ci costringe, tuttavia, a raccontare (e raccontarci) sempre certe “storielle”, non ci costringe a pensare che sia necessariamente utile farlo. Possiamo anche ammettere la realtà, volendo continuare ad esserne pienamente padroni, anche nel dolore e senza “accontentarci” di una storiella. È una scelta, è un diritto che va, quantomeno, riconosciuto e rispettato (eventualmente, anche affrontando la legittima fatica di dire la verità, pur con ogni doverosa cautela).
Possiamo, in ogni caso, continuare a fare certi “gestacci”, come Lino Banfi, se qualcuno ci parla di certe cose che non vorremmo mai sentire. Se qualcuno scrive articoli in un blog che non vorremmo mai leggere. Se qualcuno dice troppe “supercazzole”.
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A questo punto, ringraziandoti per la tua eroica condiscendenza nel leggere questo lungo (e forse anche un tantino pesante) articolo, per concederti un po’ di tregua finale ti suggerisco di ascoltare un altro brano dei Måneskin.
Ti invito ad ascoltare quello che, in realtà, continuo a pensare sia il migliore realizzato, finora, dallo stesso gruppo musicale, intitolato “Torna a Casa”.
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Come al solito concludo ricordandoti che potresti (perché no) “passare voce” ed informare altre persone dell’esistenza di QUASIZEN (puoi, ad esempio, utilizzare i “pulsanti” in cima ad ogni articolo per condividerlo anche nei social).
Se vorrai spiegare cosa vi si può trovare, potresti accennare a quanto ho scritto in un precedente articolo che potrai trovare cliccando qui. Ti ringrazio anche per questo.
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Se volessi contattarmi lo potrai fare scrivendo a quasizen.mail@gmail.com
Accetterò ogni commento, giudizio o suggerimento (e, se proprio ci tieni, anche qualche insulto).
Ciao, alla prossima (non so quando).
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