SUPERCAZZOLE N° 6

Articolo di Renato Di Gesù (per informazioni sull’autore, clicca qui). 

Questa volta, prima di iniziare il presente articolo, azzardo a proporti l’ascolto di un brano di musica Classica; si tratta del secondo tempo (Adagio un poco mosso) del concerto per pianoforte e orchestra n. 5 di Ludwig van Beethoven, detto “L’Imperatore” (per maggiori informazioni su questa sublime opera di Beethoven, clicca qui). Sono sicuro che apprezzerai la magnifica cantabilità e dolcezza di questo brano musicale che potrà accompagnare la lettura di questo stesso articolo.

L’interprete di questa esecuzione è Jan Lisiecki, giovane pianista canadese che ha iniziato a studiare pianoforte all’età di cinque anni, facendo il suo debutto orchestrale a nove anni (per maggiori informazioni, clicca qui).

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Con questo articolo proseguo a presentarti alcune mie riflessioni sulle cure palliative. Potrai rileggere i precedenti 5 articoli cliccando sui seguenti numeri: 1234 5.

Anche questa volta voglio accennare ad un’altra “supercazzola” che temo venga, tante volte, pronunciata per descrivere ciò che si fa nelle cure palliative. 

Io credo che la visione che ognuno ha delle cure palliative sia abbastanza diversa tra le varie persone. Probabilmente è, addirittura, diversa anche tra gli stessi operatori che si occupano di tali cure. Talvolta, chiedendo a tanti quale sia lo scopo delle stesse cure palliative, la risposta che si riceve (con una bella “frase fatta”) è che queste servono ad “accompagnare” il paziente terminale. 

E con questa elegante “supercazzola” ci si sente sollevati dal dover spiegare meglio cosa si intende per cure palliative. 

Ma cosa significa accompagnare? 

In tutta sincerità, ho il sospetto che, per alcune persone, “accompagnare” il malato terminale sia, un po’, come accompagnare i figli a scuola (almeno come capita qualche volta).

Ti alzi presto la mattina, fai una colazione veloce, strilli un paio di rimproveri ai tuoi figli che hanno qualche capriccio mattutino, li imbarchi velocemente in macchina, fai altre due urla in mezzo al traffico e, così, arrivi a scuola dove, finalmente, puoi “parcheggiare” i tuoi piccoli diavoletti, diventando libero di fare quello per cui ti sei realmente svegliato la mattina: trascorrere una dannata giornata di lavoro. 

Ma noooo, non è vero! Si portano i figli a scuola per farli crescere e per garantire loro un’adeguata istruzione.

Non dico che questa buona intenzione sia del tutto falsa, non voglio pensare che sia un’altra grossa “supercazzola”.

Ma invito chiunque a ricordare come, durante il periodo più critico che abbiamo vissuto col COVID negli anni passati, tantissimi genitori si sono ritrovati in crisi per non poter più portare i propri figli a scuola, dovendoli tenere a casa a fare la “DAD”. Proprio questa “crisi” ha smascherato (se mai ce ne fosse stato bisogno) come la scuola svolga, anche, il ruolo di “parcheggio” dei ragazzi? 

Non dico che sia così per tutti, penso solo che la scuola, purtroppo, ha anche questo ruolo sociale. 

Ora, senza voler assolutamente mettere in discussione la tragicità di una malattia terminale e senza permettermi di dubitare su l’estremo dolore che può provare un familiare di un malato terminale, credo che si possa ammettere che “parcheggiare” quello stesso malato in un Hospice consenta al resto degli stessi familiari, anche, di poter continuare a svolgere le proprie necessarie attività lavorative, oltre tutte quelle della consueta quotidianità personale e sociale.

Non è un peccato, non è una colpa, è una necessità che l’odierna struttura sociale, purtroppo, tante volte impone. Oltretutto è, generalmente, una scelta molto dolorosa e lo si legge negli occhi di tanti familiari degli stessi pazienti. Il più delle volte è la scelta di chi desidera che il proprio caro non debba affrontare strazianti sofferenze.

Quindi si accompagna (o si “posa”) il malato in una struttura dove c’è gente che, per mestiere, “accompagna” quella persona verso la propria morte. 

E come fanno gli operatori delle cure palliative ad accompagnare? Cosa significa accompagnare per loro? 

Mettono 6-7 fiale di morfina ed il “gioco” è fatto? No, non è proprio così che funziona! 

Il termine “accompagnare” viene dalla parola “compagno” che, a sua volta, deriva dal latino medievale “cum panis” ovvero “chi mangia il pane con un altro”. Ciò viene inteso come la condizione che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane in modo tale che, sostanzialmente, si ritrovino a condividere anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze.

Quindi accompagnare significa unirsi a qualcuno. 

In mancanza di questa unione la parola “accompagnare” non è altro che una delle tante supercazzole che abbondano quando si parla di cure palliative. 

Chi intende accompagnare un malato terminale, chi lo deve fare come familiare o come operatore, lo può fare solo unendosi a quella persona durante quel suo ultimo cammino. 

Se non si è disposti a quell’unione non si accompagna proprio un bel niente. Si mettono solo 6-7 fiale di morfina e si medicalizza la morte. Si parcheggia una persona per i suoi ultimi giorni di vita. Tutto qui, non si fa altro.

Ci si illude, semplicemente, di “curare” qualcosa che non va curata. La morte non si può curare per il semplice fatto che la stessa morte NON è una malattia. 

Le cure palliative usano, anche, i farmaci (non diciamo c…. te, servono, eccome!), ma non si fanno solo con i farmaci, altrimenti non si accompagna proprio un bel niente! 

Chi opera nelle cure palliative ha una enorme responsabilità, perché la propria è stata una scelta (non lo è per i familiari di chi soffre). Chi opera nella cure palliative ha scelto di accompagnare una persona verso la morte e non di scaricarla (o, peggio ancora, di “discaricarla”) alla stessa morte. Questo percorso non può e non deve essere un abbandono. Tuttavia, operare nelle cure palliative non è una “passeggiata” e si corre sempre il rischio di cadere nel tranello della semplice medicalizzazione della morte. Si corre sempre il rischio di accontentarsi di 6-7 fiale di morfina. 

Io non mi accontento.

Se avessi voluto fare solo il medico, avrei continuato a fare il neurologo. Lo so, anche questa affermazione sembra tanto una “supercazzola”.

Pazienza, non ho bisogno di dimostrare nulla, mi limito solo a fare un lavoro in cui credo, non solo per “accompagnare” qualcuno lungo una triste strada.

Ho anche altre “ambizioni” e svolgo il mio lavoro desiderando che lungo quella stessa strada si preservi un significato della vita, per come potrà essere percepito da ogni paziente.

Lo meritano i malati terminali e lo meritano, anche, i loro familiari, ma di questo ne parlerò in qualche altro articolo.

Se hai già terminato l’ascolto del precedente brano musicale di Ludwig van Beethoven, fiducioso che tu lo abbia apprezzato, voglio suggerirti di terminare la lettura di questo articolo, ascoltando un’altro capolavoro dello stesso autore. Si tratta della famosissima “Per Elisa”, interpretata da una pianista molto brava e molto “interessante”: Lola Astanova (per maggiori informazioni su questa artista, clicca qui)

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Dopo questo ascolto, come al solito, mi auguro che vorrai (perché no?) “passare voce” ed informare altre persone dell’esistenza del blog “QUASIZEN” (puoi, ad esempio, utilizzare i “pulsanti” in cima ad ogni articolo per condividerlo anche nei social).

Se vorrai spiegare cosa vi si può trovare, potresti accennare a quanto ho scritto in un precedente articolo che potrai trovare cliccando qui. Ti ringrazio anche per questo.

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Se, inoltre, volessi contattarmi lo potrai fare scrivendo a quasizen.mail@gmail.com

Accetterò ogni commento, giudizio o suggerimento (e, se non riesci proprio ad evitarlo, anche qualche insulto). Oppure, potresti anche inviare un tuo articolo che vorresti pubblicare su “QUASIZEN”.

Ciao, alla prossima (non so quando).

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